 |

|
|
Mangiafoco starnutisce e perdona a Pinocchio, il
quale poi difende dalla morte il suo amico Arlecchino.
Il burattinaio Mangiafoco che (questo era il suo nome) pareva un uomo
spaventoso, non dico di no, specie con quella sua barbaccia nera che, a
uso grembiale, gli copriva tutto il petto e tutte le gambe; ma nel fondo
poi non era un cattiv'uomo. Prova ne sia che quando vide portarsi
davanti quel povero Pinocchio, che si dibatteva per ogni verso, urlando
``Non voglio morire, non voglio morire!'', principiò subito a
commuoversi e a impietosirsi e, dopo aver resistito un bel pezzo, alla
fine non ne poté più, e lasciò andare un sonorissimo starnuto.
A quello starnuto, Arlecchino, che fin allora era stato afflitto e
ripiegato come un salcio piangente, si fece tutto allegro in viso, e
chinatosi verso Pinocchio, gli bisbigliò sottovoce:
- Buone nuove, fratello. Il burattinaio ha starnutito, |
|
 |
e questo è segno che s'è mosso a compassione per te, e oramai sei salvo.
Perché bisogna sapere che, mentre tutti gli uomini, quando si sentono
impietositi per qualcuno, o piangono o per lo meno fanno finta di
rasciugarsi gli occhi, Mangiafoco, invece, ogni volta che s'inteneriva
davvero, aveva il vizio di starnutire. Era un modo come un altro, per
dare a conoscere agli altri la sensibilità del suo cuore.
Dopo aver starnutito, il burattinaio, seguitando a fare il burbero,
gridò a Pinocchio:
- Finiscila di piangere! I tuoi lamenti mi hanno messo un'uggiolina in
fondo allo stomaco... Sento uno spasimo, che quasi quasi... Etcì etcì -
e fece altri due starnuti.
- Felicità! - disse Pinocchio.
- Grazie! E il tuo babbo e la tua mamma sono sempre vivi? - gli domandò
Mangiafoco.
- Il babbo, sì la mamma non l'ho mai conosciuta.
- Chi lo sa che dispiaeere sarebbe per il tuo vecchio padre, se ora ti
facessi gettare fra quei carboni ardenti! Povero vecchio! lo compatiseo!..
Etcì etcì etcì - e fece altri tre starnuti. - Felicità! - disse
Pinocchio.
- Grazie! Del resto bisogna compatire anche me, perché, come vedi, non
ho più legna per finire di cuocere quel montone arrosto, e tu, dico la
verità, in questo caso mi avresti fatto un gran comodo! Ma oramai mi
sono impietosito e ci vuol pazienza. Invece di te, metterò a bruciare
sotto lo spiedo qualche burattino della mia Compagnia... Olà, giandarmi!
A questo comando comparvero subito due giandarmi di legno, lunghi
lunghi, secchi secchi, col cappello a lucerna in testa e colla sciabola
sfoderata in mano.
Allora il burattinaio disse loro con voce rantolosa:
- Pigliatemi lì quell'Arlecchino, legatelo ben bene, e poi gettatelo a
bruciare sul fuoco. Io voglio che il mio montone sia arrostito bene!
Figuratevi il povero Arlecchino! Fu tanto il suo spavento, che le gambe
gli si ripiegarono e cadde bocconi per terra. Pinocchio, alla vista di
quello spettacolo straziante, andò a gettarsi ai piedi del burattinaio e
piangendo dirottamente e bagnandogli di lacrime tutti i peli della
lunghissima barba, cominciò a dire con voce supplichevole:
- Pietà, signor Mangiafoco!... - Qui non ci son signori! - replicò
duramente il burattinaio.
- Pietà, signor Cavaliere!... - Qui non ci son cavalieri!
- Pietà, signor Commendatore!... - Qui non ci son commendatori!
- Pietà, Eccellenza!... A sentirsi chiamare Eccellenza il burattinaio
fece subito il bocchino tondo, e diventato tutt'a un tratto più umano e
più trattabile, disse a Pinocchio:
- Ebbene, che cosa vuoi da me? - Vi domando grazia per il povero
Arlecchino!...
- Qui non c'è grazia che tenga. Se ho risparmiato te, bisogna che faccia
mettere sul fuoco lui, perché io voglio che il mio montone sia arrostito
bene.
- In questo caso, - gridò fieramente Pinocchio, rizzandosi e gettando
via il suo berretto di midolla di pane, - in questo caso conosco qual è
il mio dovere. Avanti, signori giandarmi! Legatemi e gettatemi là fra
quelle fiamme. No, non è giusta che il povero Arlecchino, il vero amico
mio, debba morire per me!...
Queste parole, pronunziate con voce alta e con accento eroico, fecero
piangere tutti i burattini che erano presenti a quella scena. Gli stessi
giandarmi, sebbene fossero di legno, piangevano come due agnellini di
latte. Mangiafoco, sul principio, rimase duro e immobile come un pezzo
di ghiaccio: ma poi, adagio adagio, cominciò anche lui a commuoversi e a
starnutire. E fatti quattro o cinque starnuti, aprì affettuosamente le
braccia e disse a Pinocchio: - Tu sei un gran bravo ragazzo! Vieni qua
da me e dammi un bacio. Pinocchio corse subito, e arrampicandosi come
uno scoiattolo su per la barba del burattinaio, andò a posargli un
bellissimo bacio sulla punta del naso.
- Dunque la grazia è fatta? - domandò il povero Arlecchino, con un fil
di voce che si sentiva appena. - La grazia è fatta! - rispose Mangiafoco:
poi soggiunse sospirando e tentennando il capo: - Pazienza! Per questa
sera mi rassegnerò a mangiare il montone mezzo crudo, ma un'altra volta,
guai a chi toccherà!...
Alla notizia della grazia ottenuta, i burattini corsero tutti sul
palcoscenico e, accesi i lumi e i lampadari come in serata di gala,
cominciarono a saltare e a ballare. Era l'alba e ballavano sempre.
 |
- Guadagna tanto,
quanto ci vuole per non aver mai un centesimo in tasca. Si figuri che
per comprarmi l'Abbecedario della scuola dové vendere l'unica casacca
che aveva addosso: una casacca che, fra toppe e rimendi, era tutta una
piaga.
- Povero diavolo! Mi fa quasi compassione. Ecco qui cinque monete d'oro.
Vai subito a portargliele e salutalo tanto da parte mia.
Pinocchio, com'è facile immaginarselo, ringraziò mille volte il
burattinaio, abbracciò, a uno a uno, tutti i burattini della Compagnia,
anche i giandarmi: e fuori di sé dalla contentezza, si mise in viaggio
per tornarsene a casa sua.
Ma non aveva fatto ancora mezzo chilometro, che incontrò per la strada
una Volpe zoppa da un piede e un Gatto cieco da tutt'e due gli occhi,
che se ne andavano là là, aiutandosi fra di loro, da buoni compagni di
sventura. La Volpe che era zoppa, camminava appoggiandosi al Gatto: e il
Gatto, che era cieco, si lasciava guidare dalla Volpe.
- Buon giorno, Pinocchio, - gli disse la Volpe, salutandolo
garbatamente.
- Com'è che sai il mio nome? - domandò il burattino.
- Conosco bene il tuo babbo.
- Dove l'hai veduto? - L'ho veduto ieri sulla porta di casa sua.
- E che cosa faceva? - Era in maniche di camicia e tremava dal freddo.
- Povero babbo! Ma, se Dio vuole, da oggi in poi non tremerà più!...
- Perché? - Perché io sono diventato un gran signore.
- Un gran signore tu? - disse la Volpe, e cominciò a ridere di un riso
sguaiato e canzonatore: e il Gatto rideva anche lui, ma per non darlo a
vedere, si pettinava i baffi colle zampe davanti. - C'è poco da ridere,
- gridò Pinocchio impermalito. - Mi dispiace davvero di farvi venire
l'acquolina in bocca, ma queste qui, se ve ne intendete, sono cinque
bellissime monete d'oro. E tirò fuori le monete avute in regalo da
Mangiafoco.
Al simpatico suono di quelle monete la Volpe, per un moto involontario,
allungò la gamba che pareva rattrappita, e il Gatto spalancò tutt'e due
gli occhi, che parvero due lanterne verdi: ma poi li richiuse subito,
tant'è vero che Pinocchio non si accorse di nulla.
- E ora, - gli domandò la Volpe, - che cosa vuoi farne di codeste
monete?
- Prima di tutto, - rispose il burattino, - voglio comprare per il mio
babbo una bella casacca nuova, tutta d'oro e d'argento e coi bottoni di
brillanti: e poi voglio comprare un Abbecedario per me. - Per te? -
Davvero: perché voglio andare a scuola e mettermi a studiare a buono. -
Guarda me! - disse la Volpe. - Per la passione sciocca di studiare ho
perduto una gamba. - Guarda me! - disse il Gatto. - Per la passione
sciocca di studiare ho perduto la vista di tutti e due gli occhi. In
quel mentre un Merlo bianco, che se ne stava appollaiato sulla siepe
della strada, fece il solito verso e disse:
- Pinocchio, non dar retta ai consigli dei cattivi compagni: se no, te
ne pentirai!
Povero Merlo, non l'avesse mai detto! Il Gatto, spiccando un gran salto,
gli si avventò addosso, e senza dargli nemmeno il tempo di dire ohi se
lo mangiò in un boccone, con le penne e tutto. Mangiato che l'ebbe e
ripulitasi la bocca, chiuse gli occhi daccapo e ricominciò a fare il
cieco, come prima. - Povero Merlo! - disse Pinocchio al Gatto, - perché
l'hai trattato così male? - Ho fatto per dargli una lezione. Così
un'altra volta imparerà a non metter bocca nei discorsi degli altri.
Erano giunti più che a mezza strada, quando la Volpe, fermandosi di
punto in bianco, disse al burattino:
- Vuoi raddoppiare le tue monete d'oro? - Cioè?
- Vuoi tu, di cinque miserabili zecchini, farne cento, mille, duemila?
- Magari! E la maniera? - La maniera è facilissima. Invece di tornartene
a casa tua, dovresti venire con noi. - E dove mi volete condurre? - Nel
paese dei Barbagianni.
Pinocchio ci pensò un poco, e poi disse risolutamente:
- No, non ci voglio venire. Oramai sono vicino a casa, e voglio
andarmente a casa, dove c'è il mio babbo che m'aspetta. Chi lo sa,
povero vecchio, quanto ha sospirato ieri, a non vedermi tornare. Pur
troppo io sono stato un figliolo cattivo, e il Grillo-parlante aveva
ragione quando diceva: "I ragazzi disobbedienti non possono aver bene in
questo mondo". E io l'ho provato a mie spese, Perché mi sono capitate
dimolte disgrazie, e anche ieri sera in casa di Mangiafoco, ho corso
pericolo... Brrr! mi viene i bordoni soltanto a pensarci! - Dunque, -
disse la Volpe, - vuoi proprio andare a casa tua? Allora vai pure, e
tanto peggio per te! - Tanto peggio per te! - ripeté il Gatto.
- Pensaci bene, Pinocchio, perché tu dài un calcio alla fortuna.
- Alla fortuna! - ripeté il Gatto. - I tuoi cinque zecchini, dall'oggi
al domani sarebbero diventati duemila. - Duemila! - ripeté il Gatto. -
Ma com'è mai possibile che diventino tanti? - domandò Pinocchio,
restando a bocca aperta dallo stupore.
- Te lo spiego subito, - disse la Volpe. - Bisogna sapere che nel paese
dei Barbagianni c'è un campo benedetto, chiamato da tutti il Campo dei
miracoli. Tu fai in questo campo una piccola buca e ci metti dentro per
esempio uno zecchino d'oro. Poi ricuopri la buca con un po' di terra:
l'annaffi con due secchie d'acqua di fontana, ci getti sopra una presa
di sale, e la sera te ne vai tranquillamente a letto. Intanto, durante
la notte, lo zecchino germoglia e fiorisce, e la mattina dopo, di
levata, ritornando nel campo, che cosa trovi? Trovi un bell'albero
carico di tanti zecchini d'oro, quanti chicchi di grano può avere una
bella spiga nel mese di giugno.
- Sicché dunque, - disse Pinocchio sempre più sbalordito, - se io
sotterrassi in quel campo i miei cinque zecchini, la mattina dopo quanti
zecchini ci troverei?
- È un conto facilissimo, - rispose la Volpe, - un conto che puoi farlo
sulla punta delle dita. Poni che ogni zecchino ti faccia un grappolo di
cinquecento zecchini: moltiplica il cinquecento per cinque e la mattina
dopo ti trovi in tasca duemila cinquecento zecchini lampanti e sonanti.
- Oh che bella cosa! - gridò Pinocchio, ballando dall'allegrezza. -
Appena che questi zecchini gli avrò raccolti, ne prenderò per me duemila
e gli altri cinquecento di più li darò in regalo a voi altri due.
- Un regalo a noi? - gridò la Volpe sdegnandosi e chiamandosi offesa. -
Dio te ne liberi!
- Te ne liberi! - ripeté il Gatto.
- Noi, - riprese la Volpe, - non lavoriamo per il vile interesse: noi
lavoriamo unicamente per arricchire gli altri. - Gli altri! - ripeté il
Gatto.
- Che brave persone! - pensò dentro di sé Pinocchio: e dimenticandosi lì
sul tamburo, del suo babbo, della casacca nuova, dell'Abbecedario e di
tutti i buoni proponimenti fatti, disse alla Volpe e al Gatto: - Andiamo
pure. Io vengo con voi.
 |
L'osteria del Gambero Rosso.
Cammina, cammina, cammina, alla fine sul far della sera arrivarono
stanchi morti all'osteria del Gambero Rosso.
- Fermiamoci un po' qui, - disse la Volpe, - tanto per mangiare un
boccone e per riposarci qualche ora. A mezzanotte poi ripartiremo per
essere domani, all'alba, nel Campo dei miracoli.
Entrati nell'osteria, si posero tutti e tre a tavola: ma nessuno di loro
aveva appetito.
Il povero Gatto, sentendosi gravemente indisposto di stomaco, non poté
mangiare altro che trentacinque triglie con salsa di pomodoro e quattro
porzioni di trippa alla parmigiana: e perché la trippa non gli pareva
condita abbastanza, |
|
|
si rifece tre volte a chiedere il burro e il formaggio grattato!
La Volpe avrebbe spelluzzicato volentieri qualche cosa anche lei: ma
siccome il medico le aveva ordinato una grandissima dieta, così dové
contentarsi di una semplice lepre dolce e forte con un leggerissimo
contorno di pollastre ingrassate e di galletti di primo canto. Dopo la
lepre si fece portare per tornagusto un cibreino di pernici, di starne,
di conigli, di ranocchi, di lucertole e d'uva paradisa; e poi non volle
altro. Aveva tanta nausea per il cibo, diceva lei, che non poteva
accostarsi nulla alla bocca.
Quello che mangiò meno di tutti fu Pinocchio. Chiese uno spicchio di
noce e un cantuccino di pane, e lasciò nel piatto ogni cosa. Il povero
figliuolo col pensiero sempre fisso al Campo dei miracoli, aveva preso
un'indigestione anticipata di monete d'oro.
Quand'ebbero cenato, la Volpe disse all'oste:
- Dateci due buone camere, una per il signor Pinocchio e un'altra per me
e per il mio compagno. Prima di ripartire schiacceremo un sonnellino.
Ricordatevi però che a mezzanotte vogliamo essere svegliati per
continuare il nostro viaggio.
- Sissignori, - rispose l'oste e strizzò l'occhio alla Volpe e al Gatto,
come dire: « Ho mangiata la foglia e ci siamo intesi!... ».
Appena che Pinocchio fu entrato nel letto, si addormentò a colpo e
principiò a sognare. E sognando gli pareva di essere in mezzo a un
campo, e questo campo era pieno di arboscelli carichi di grappoli, e
questi grappoli erano carichi di zecchini d'oro che, dondolandosi mossi
dal vento, facevano zin, zin, zin, quasi volessero dire: « Chi ci vuole
venga a prenderci ». Ma quando Pinocchio fu sul più bello, quando, cioe,
allungò la mano per prendere a manciate tutte quelle belle monete e
mettersele in tasca, si trovò svegliato all'improvviso da tre
violentissimi colpi dati nella porta di camera.
Era l'oste che veniva a dirgli che la mezzanotte era suonata.
- E i miei compagni sono pronti? - gli domandò il burattino.
- Altro che pronti! Sono partiti due ore fa. - Perché mai tanta fretta?
- Perché il Gatto ha ricevuto un'imbasciata, che il suo gattino
maggiore, malato di geloni ai piedi, stava in pericolo di vita. - E la
cena l'hanno pagata?
- Che vi pare? Quelle lì sono persone troppo educate perché facciano un
affronto simile alla signoria vostra. - Peccato! Quest'affronto mi
avrebbe fatto tanto piacere! - disse Pinocchio, grattandosi il capo. Poi
domandò: - E dove hanno detto di aspettarmi quei buoni amici? - Al Campo
dei miracoli, domattina, allo spuntare del giorno.
Pinocchio pagò uno zecchino per la cena sua e per quella dei suoi
compagni, e dopo partì.
Ma si può dire che partisse a tastoni, perché fuori dell'osteria c'era
un buio così buio, che non ci si vedeva da qui a lì. Nella campagna
all'intorno non si sentiva alitare una foglia. Solamente alcuni
uccellacci notturni, traversando la strada da una siepe all'altra,
venivano a sbattere le ali sul naso di Pinocchio, il quale, facendo un
salto indietro per la paura, gridava: - Chi va là? - e l'eco delle
colline circostanti ripeteva in lontananza: - Chi va là? chi va là? chi
va là? Intanto, mentre camminava, vide sul tronco di un albero un
piccolo animaletto che riluceva di una luce pallida e opaca, come un
lumino da notte dentro una lampada di porcellana trasparente. - Chi sei?
- gli domandò Pinocchio.
- Sono l'ombra del Grillo-parlante, - rispose l'animaletto, con una
vocina fioca fioca, che pareva venisse dal mondo di là. - Che vuoi da
me? - disse il burattino.
- Voglio darti un consiglio. Ritorna indietro e porta i quattro
zecchini, che ti sono rimasti, al tuo povero babbo che piange e si
dispera per non averti più veduto.
- Domani il mio babbo sarà un gran signore, perche questi quattro
zecchini diventeranno duemila. - Non ti fidare, ragazzo mio, di quelli
che promettono di farti ricco dalla mattina alla sera. Per il solito, o
sono matti o imbroglioni! Dài retta a me, ritorna indietro.
- E io, invece, voglio andare avanti. - L'ora è tarda!... - Voglio
andare avanti.
- La nottata è scura... - Voglio andare avanti. - La strada è
pericolosa... - Voglio andare avanti. - Ricordati che i ragazzi che
vogliono fare di loro capriccio e a modo loro, prima o poi se ne
pentono. - Le solite storie. Buona notte, Grillo.
- Buona notte, Pinocchio, e che il cielo ti salvi dalla guazza e dagli
assassini!
Appena dette queste ultime parole, il Grillo-parlante si spense a un
tratto, come si spenge un lume soffiandoci sopra, e la strada rimase più
buia di prima.
 |
|
Pinocchio, per non aver dato retta ai buoni
consigli del Grillo-parlante, s'imbatte negli assassini.
- Davvero, - disse fra sé il burattino rimettendosi in viaggio, - come
siamo disgraziati noialtri poveri ragazzi! Tutti ci sgridano, tutti ci
ammoniscono, tutti ci dànno consigli. A lasciarli dire, tutti si
metterebbero in capo di essere i nostri babbi e i nostri maestri: tutti:
anche i Grilli-parlanti. Ecco qui: perché io non ho voluto dar retta a
quell'uggioso di Grillo, chi lo sa quante disgrazie, secondo lui, mi
dovrebbero accadere! Dovrei incontrare anche gli assassini! |
|
Meno male che agli assassini io non ci credo, né ci ho creduto mai. Per me
gli assassini sono stati inventati apposta dai babbi, per far paura ai
ragazzi che vogliono andare fuori la notte. E poi se anche li trovassi
qui sulla strada, mi darebbero forse soggezione? Neanche per sogno.
Anderei loro sul viso, gridando: "Signori assassini, che cosa vogliono
da me? Si rammentino che con me non si scherza! Se ne vadano dunque per
i fatti loro, e zitti!". A questa parlantina fatta sul serio, quei
poveri assassini, mi par di vederli, scapperebbero via come il vento.
Caso poi fossero tanto ineducati da non voler scappare, allora scapperei
io, e così la farei finita...
Ma Pinocchio non poté finire il suo ragionamento, perché in quel punto
gli parve di sentire dietro di sé un leggerissimo fruscìo di foglie.
Si voltò a guardare e vide nel buio due figuracce nere tutte imbacuccate
in due sacchi da carbone, le quali correvano dietro a lui a salti e in
punta di piedi, come se fossero due fantasmi. - Eccoli davvero! - disse
dentro di sé: e non sapendo dove nascondere i quattro zecchini, se li
nascose in bocca e precisamente sotto la lingua.
Poi si provò a scappare. Ma non aveva ancor fatto il primo passo, che
sentì agguantarsi per le braccia e intese due voci orribili e cavernose,
che gli dissero:
- O la borsa o la vita! Pinocchio non potendo rispondere con le parole,
a motivo delle monete che aveva in bocca, fece mille salamelecchi e
mille pantomime per dare ad intendere a quei due incappati, di cui si
vedevano soltanto gli occhi attraverso i buchi dei sacchi, che lui era
un povero burattino, e che non aveva in tasca nemmeno un centesimo
falso. - Via, via! Meno ciarle e fuori i denari! - gridavano
minacciosamente i due briganti.
E il burattino fece col capo e colle mani un segno come dire: « Non-ne
ho ».
- Metti fuori i denari o sei morto, - disse l'assassino più alto di
statura.
- Morto! - ripeté l'altro. - E dopo ammazzato te, ammazzeremo anche tuo
padre!
- Anche tuo padre! - No, no, no, il mio povero babbo no! - gridò
Pinocchio con accento disperato: ma nel gridare così, gli zecchini gli
suonarono in bocca.
- Ah! furfante! Dunque i denari te li sei nascosti sotto la lingua?
Sputali subito!
E Pinocchio, duro! - Ah! tu fai il sordo? Aspetta un poco, che penseremo
noi a farteli sputare! |
Difatti, uno di loro afferrò il burattino per la punta del naso e
quell'altro lo prese per la bazza, e lì cominciarono a tirare
screanzatamente, uno per in qua e l'altro per in là, tanto da
costringerlo a spalancare la bocca: ma non ci fu verso. La bocca del
burattino pareva inchiodata e ribadita. Allora l'assassino più piccolo
di statura, cavato fuori un coltellaccio, provò a conficcarglielo, a
guisa di leva e di scalpello, fra le labbra: |
|
|
|
ma Pinocchio, lesto come un lampo, gli azzannò la mano coi denti, e dopo
avergliela con un morso staccata di netto, la sputò; e figuratevi la sua
maraviglia quando, invece di una mano, si accorse di aver sputato in
terra uno zampetto di gatto. Incoraggiato da questa prima vittoria, si
liberò a forza dalle unghie degli assassini e, saltata la siepe della
strada, cominciò a fuggire per la campagna. E gli assassini a correre
dietro a lui, come due cani dietro una lepre: e quello che aveva perduto
uno zampetto correva con una gamba sola, né si è saputo mai come
facesse.
Dopo una corsa di quindici chilometri, Pinocchio non ne poteva più.
Allora, vistosi perso, si arrampicò su per il fusto di un altissimo pino
e si pose a sedere in vetta ai rami. Gli assassini tentarono di
arrampicarsi anche loro, ma giunti a metà del fusto sdrucciolarono e,
ricascando a terra, si spellarono le mani e i piedi.
Non per questo si dettero per vinti: che anzi, raccolto un fastello di
legna secche a pié del pino, vi appiccarono il fuoco. In men che non si
dice, il pino cominciò a bruciare e a divampare, come una candela
agitata dal vento. Pinocchio, vedendo che le fiamme salivano sempre più,
e non volendo far la fine del piccione arrosto, spiccò un bel salto di
vetta all'albero, e via a correre daccapo attraverso ai campi e ai
vigneti. E gli assassini dietro, sempre dietro, senza stancarsi mai.
Intanto cominciava a baluginare il giorno e si rincorrevano sempre;
quand'ecco che Pinocchio si trovò sbarrato il passo da un fosso largo e
profondissimo, tutto pieno di acquaccia sudicia, color del caffè e
latte. Che fare? « Una, due, tre! » gridò il burattino, e slanciandosi
con una gran rincorsa, saltò dall'altra parte. E gli assassini saltarono
anche loro, ma non avendo preso bene la misura, patatunfete!...
cascarono giù nel bel mezzo del fosso. Pinocchio che sentì il tonfo e
gli schizzi dell'acqua, urlò ridendo e seguitando a correre: - Buon
bagno, signori assassini.
E già si figurava che fossero bell'e affogati, quando invece, voltandosi
a guardare, si accòrse che gli correvano dietro tutti e due, sempre
imbacuccati nei loro sacchi e grondanti acqua come due panieri sfondati.
 |
|
|

|
 |