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Gli assassini inseguono Pinocchio; e, dopo averlo
raggiunto, lo impiccano a un ramo della Quercia grande.
Allora il burattino, perdutosi d'animo, fu proprio sul punto di gettarsi
in terra e di darsi per vinto, quando nel girare gli occhi all'intorno
vide fra mezzo al verde cupo degli alberi biancheggiare in lontananza
una casina candida come la neve.
- Se io avessi tanto fiato da arrivare fino a quella casa, forse sarei
salvo, - disse dentro di sé.
E senza indugiare un minuto riprese a correre per il bosco a carriera
distesa. E gli assassini sempre dietro. E dopo una corsa disperata di
quasi due ore, finalmente tutto trafelato arrivò alla porta di quella
casina e bussò.
Nessuno rispose. |
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Tornò a bussare con maggior violenza, perché sentiva avvicinarsi il
rumore dei passi e il respiro grosso e affannoso de' suoi persecutori.
Lo stesso silenzio. Avvedutosi che il bussare non giovava a nulla,
cominciò per disperazione a dare calci e zuccate nella porta. Allora si
affacciò alla finestra una bella bambina, coi capelli turchini e il viso
bianco come un'immagine di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate
sul petto, la quale senza muovere punto le labbra, disse con una vocina
che pareva venisse dall'altro mondo: - In questa casa non c'è nessuno.
Sono tutti morti.
- Aprimi almeno tu! - gridò Pinocchio piangendo e raccomandandosi.
- Sono morta anch'io. - Morta? e allora che cosa fai costì alla
finestra?
- Aspetto la bara che venga a portarmi via. Appena detto così, la
bambina disparve, e la finestra si richiuse senza far rumore. - O bella
bambina dai capelli turchini, - gridava Pinocchio, - aprimi per carità!
Abbi compassione di un povero ragazzo inseguito dagli assass... Ma non
poté finir la parola, perche sentì afferrarsi per il collo, e le solite
due vociaccie che gli brontolarono minacciosamente: - Ora non ci scappi
più!
Il burattino, vedendosi balenare la morte dinanzi agli occhi, fu preso
da un tremito così forte, che nel tremare, gli sonavano le giunture
delle sue gambe di legno e i quattro zecchini che teneva nascosti sotto
la lingua.
- Dunque? - gli domandarono gli assassini, - vuoi aprirla la bocca, sì o
no? Ah! non rispondi?... Lascia fare: ché questa volta te la faremo
aprir noi!...
E cavato fuori due coltellacci lunghi lunghi e affilati come rasoi, zaff...
gli affibbiarono due colpi nel mezzo alle reni. Ma il burattino per sua
fortuna era fatto d'un legno durissimo, motivo per cui le lame,
spezzandosi, andarono in mille schegge e gli assassini rimasero col
manico dei coltelli in mano, a guardarsi in faccia. - Ho capito, - disse
allora uno di loro, - bisogna impiccarlo! Impicchiamolo! -
Impicchiamolo, - ripeté l'altro.
Detto fatto, gli legarono le mani dietro le spalle e passatogli un nodo
scorsoio intorno alla gola, lo attaccarono penzoloni al ramo di una
grossa pianta detta la Quercia grande.
Poi si posero là, seduti sull'erba, aspettando che il burattino facesse
l'ultimo sgambetto: ma il burattino, dopo tre ore, aveva sempre gli
occhi aperti, la bocca chiusa e sgambettava più che mai. Annoiati
finalmente di aspettare, si voltarono a Pinocchio e gli dissero
sghignazzando: - Addio a domani. Quando domani torneremo qui, si spera
che ci farai la garbatezza di farti trovare bell'e morto e con la bocca
spalancata.
E se ne andarono. Intanto s'era levato un vento impetuoso di tramontana,
che soffiando e mugghiando con rabbia, sbatacchiava in qua e in là il
povero impiccato, facendolo dondolare violentemente come il battaglio di
una campana che suona a festa. E quel dondolìo gli cagionava acutissimi
spasimi, e il nodo scorsoio, stringendosi sempre più alla gola, gli
toglieva il respiro. A poco a poco gli occhi gli si appannavano; e
sebbene sentisse avvicinarsi la morte, pure sperava sempre che da un
momento all'altro sarebbe capitata qualche anima pietosa a dargli aiuto.
Ma quando, aspetta aspetta, vide che non compariva nessuno, proprio
nessuno, allora gli tornò in mente il suo povero babbo... e balbettò
quasi moribondo: - Oh babbo mio! se tu fossi qui!...
E non ebbe fiato per dir altro. Chiuse gli occhi, aprì la bocca, stirò
le gambe e, dato un grande scrollone, rimase lì come intirizzito.
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- Che cosa comandate, mia graziosa Fata? - disse il Falco abbassando il
becco in atto di reverenza (perché bisogna sapere che la Bambina dai
capelli turchini non era altro, in fin dei conti, che una buonissima
Fata, che da più di mill'anni abitava nelle vicinanze di quel bosco): -
Vedi tu quel burattino attaccato penzoloni a un ramo della Quercia
grande?
- Lo vedo. - Orbene: vola subito laggiù: rompi col tuo fortissimo becco
il nodo che lo tiene sospeso in aria e posalo delicatamente sdraiato
sull'erba a piè della Quercia.
Il Falco volò via e dopo due minuti tornò dicendo: - Quel che mi avete
comandato, è fatto.
- E come l'hai trovato? Vivo o morto? - A vederlo, pareva morto, ma non
dev'essere ancora morto perbene, perché, appena gli ho sciolto il nodo
scorsoio che lo stringeva intorno alla gola, ha lasciato andare un
sospiro, balbettando a mezza voce: "Ora mi sento meglio!". Allora la
Fata, battendo le mani insieme, fece due piccoli colpi, e apparve un
magnifico Can-barbone, che camminava ritto sulle gambe di dietro, tale e
quale come se fosse un uomo. |
Il Can-barbone era vestito da cocchiere in livrea di gala. Aveva in
capo un nicchiettino a tre punte gallonato d'oro, una parrucca bianca
coi riccioli che gli scendevano giù per il collo, una giubba color di
cioccolata coi bottoni di brillanti e con due grandi tasche per tenervi
gli ossi che gli regalava a pranzo la padrona, un paio di calzoni corti
di velluto cremisi, le calze di seta, gli scarpini scollati, e di dietro
una specie di fodera da ombrelli, tutta di raso turchino, per mettervi
dentro la coda, quando il tempo cominciava a piovere. - Su da bravo,
Medoro! - disse la Fata al Can-barbone; - Fai subito attaccare la più
bella carrozza della mia scuderia e prendi la via del bosco. Arrivato
che sarai sotto la Quercia grande, troverai disteso sull'erba un povero
burattino mezzo morto. Raccoglilo con garbo, posalo pari pari su i
cuscini della carrozza e portamelo qui. Hai capito? Il Can-barbone, per
fare intendere che aveva capito, dimenò tre o quattro volte la fodera di
raso turchino, che aveva dietro, e partì come un barbero. Di lì a poco,
si vide uscire dalla scuderia una bella carrozzina color dell'aria,
tutta imbottita di penne di canarino e foderata nell'interno di panna
montata e di crema coi savoiardi. |
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La carrozzina era tirata da cento pariglie di topini bianchi, e il Can-barbone, seduto a cassetta,
schioccava la frusta a destra e a sinistra,
come un vetturino quand'ha paura di aver fatto tardi. Non era ancora
passato un quarto d'ora, che la carrozzina tornò, e la Fata, che stava
aspettando sull'uscio di casa, prese in collo il povero burattino, e
portatolo in una cameretta che aveva le pareti di madreperla, mandò
subito a chiamare i medici più famosi del vicinato. E i medici
arrivarono subito, uno dopo l'altro: arrivò, cioè, un Corvo, una Civetta
e un Grillo-parlante. - Vorrei sapere da lor signori, - disse la Fata,
rivolgendosi ai tre medici riuniti intorno al letto di Pinocchio, -
vorrei sapere da lor signori se questo disgraziato burattino sia morto o
vivo!...
A quest'invito, il Corvo, facendosi avanti per il primo, tastò il polso
a Pinocchio: poi gli tastò il naso, poi il dito mignolo dei piedi: e
quand'ebbe tastato ben bene, pronunziò solennemente queste parole: - A
mio credere il burattino è bell'e morto: ma se per disgrazia non fosse
morto, allora sarebbe indizio sicuro che è sempre vivo!
- Mi dispiace, - disse la Civetta, - di dover contraddire il Corvo, mio
illustre amico e collega: per me, invece, il burattino è sempre vivo; ma
se per disgrazia non fosse vivo, allora sarebbe segno che è morto
davvero! - E lei non dice nulla? - domandò la Fata al Grillo-parlante. -
Io dico che il medico prudente quando non sa quello che dice, la miglior
cosa che possa fare, è quella di stare zitto. Del resto quel burattino
lì non m'è fisonomia nuova: io lo conosco da un pezzo!... Pinocchio, che
fin allora era stato immobile come un vero pezzo di legno, ebbe una
specie di fremito convulso, che fece scuotere tutto il letto. - Quel
burattino lì, - seguitò a dire il Grillo-parlante, - è una birba matricolata... |
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Pinocchio aprì gli occhi e li richiuse subito. - È un monellaccio, uno
svogliato, un vagabondo. Pinocchio si nascose la faccia sotto i
lenzuoli.
- Quel burattino lì è un figliuolo disubbidiente, che farà morire di
crepacuore il suo povero babbo!... A questo punto si sentì nella camera
un suono soffocato di pianti e di singhiozzi. Figuratevi come rimasero
tutti, allorché sollevati un poco i lenzuoli, si accorsero che quello
che piangeva e singhiozzava era Pinocchio. - Quando il morto piange, è
segno che è in via di guarigione, - disse solennemente il Corvo. - Mi
duole di contraddire il mio illustre amico e collega, - soggiunse la
Civetta, - ma per me, quando il morto piange è segno che gli dispiace a
morire.
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Pinocchio mangia lo zucchero, ma non vuol
purgarsi: Però quando vede i becchini che vengono a portarlo via, allora
si purga. Poi dice una bugia e per gastigo gli cresce il naso.
Appena i tre medici furono usciti di camera, la Fata si accostò a
Pinocchio e, dopo averlo toccato sulla fronte, si accòrse che era
travagliato da un febbrone da non si dire.
Allora sciolse una certa polverina bianca in un mezzo bicchier d'acqua,
e porgendolo al burattino, gli disse amorosamente: - Bevila, e in pochi
giorni sarai guarito.
Pinocchio guardò il bicchiere, storse un po' la bocca, e poi dimanda con
voce di piagnisteo: - È dolce o amara? - È amara, ma ti farà bene. - Se
è amara, non la voglio.
- Da' retta a me: bevila. - A me l'amaro non mi piace.
- Bevila: e quando l'avrai bevuta, ti darò una pallina di zucchero, per
rifarti la bocca.
- Dov'è la pallina di zucchero? - Eccola qui, - disse la Fata, tirandola
fuori da una zuccheriera d'oro. - Prima voglio la pallina di zucchero, e
poi beverò quell'acquaccia amara... - Me lo prometti? - Sì... La fata
gli dette la pallina, e Pinocchio, dopo averla sgranocchiata e ingoiata
in un attimo, disse leccandosi i labbri:
- Bella cosa se anche lo zucchero fosse una medicina!... Mi purgherei
tutti i giorni.
- Ora mantieni la promessa e bevi queste poche gocciole d'acqua, che ti
renderanno la salute. Pinocchio prese di mala voglia il bicchiere in
mano e vi ficcò dentro la punta del naso: poi se l'accostò alla bocca:
poi tornò a ficcarci la punta del naso: finalmente disse:
- È troppo amara! troppo amara! Io non la posso bere.
- Come fai a dirlo se non l'hai nemmeno assaggiata?
- Me lo figuro! L'ho sentita all'odore. Voglio prima un'altra pallina di
zucchero... e poi la beverò!... Allora la Fata, con tutta la pazienza di
una buona mamma, gli pose in bocca un altro po' di zucchero; e dopo gli
presentò daccapo il bicchiere.
- Così non la posso bere! - disse il burattino, facendo mille smorfie.
- Perché? - Perché mi dà noia quel guanciale che ho laggiù sui piedi.
La Fata gli levò il guanciale. - È inutile! Nemmeno così la posso
bere...
- Che cos'altro ti dà noia? - Mi dà noia l'uscio di camera, che è mezzo
aperto.
La Fata andò e chiuse l'uscio di camera. - Insomma, - gridò Pinocchio,
dando in uno scoppio di pianto, - quest'acquaccia amara, non la voglio
bere, no, no, no!...
- Ragazzo mio, te ne pentirai... - Non me n'importa... - La tua malattia
è grave... - Non me n'importa... - La febbre ti porterà in poche ore
all'altro mondo...
- Non me n'importa... - Non hai paura della morte?
- Punto paura!... Piuttosto morire, che bevere quella medicina cattiva.
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A questo punto, la porta della camera si spalancò ed entrarono dentro
quattro conigli neri come l'inchiostro, che portavano sulle spalle una
piccola bara da morto.
- Che cosa volete da me? - gridò Pinocchio, rizzandosi tutto impaurito a
sedere sul letto.
- Siamo venuti a prenderti, - rispose il coniglio più grosso.
- A prendermi?... Ma io non sono ancora morto!... - Ancora no: |
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ma ti restano pochi minuti di vita avendo tu ricusato di bevere la
medicina, che ti avrebbe guarito dalla febbre!...
- O Fata, o Fata mia,- cominciò allora a strillare il burattino, -
datemi subito quel bicchiere. Spicciatevi, per carità, perché non voglio
morire no... non voglio morire...
E preso il bicchiere con tutt'e due le mani, lo votò in un fiato.
- Pazienza! - dissero i conigli. - Per questa volta abbiamo fatto il
viaggio a ufo.
E tiratisi di nuovo la piccola bara sulle spalle, uscirono di camera
bofonchiando e mormorando fra i denti. Fatto sta che di lì a pochi
minuti, Pinocchio saltò giù dal letto, bell'e guarito; perché bisogna
sapere che i burattini di legno hanno il privilegio di ammalarsi di rado
e di guarire prestissimo. E la Fata, vedendolo correre e ruzzare per la
camera, vispo e allegro come un gallettino di primo canto, gli disse:
- Dunque la mia medicina t'ha fatto bene davvero?
- Altro che bene! Mi ha rimesso al mondo!... - E allora come mai ti sei
fatto tanto pregare a beverla? - Egli è che noi ragazzi siamo tutti
così! Abbiamo più paura delle medicine che del male. - Vergogna! I
ragazzi dovrebbero sapere che un buon medicamento preso a tempo può
salvarli da una grave malattia e fors'anche dalla morte...
- Oh! ma un'altra volta non mi farò tanto pregare! Mi rammenterò di quei
conigli neri, colla bara sulle spalle... e allora piglierò subito il
bicchiere in mano, e giù!...
- Ora vieni un po' qui da me e raccontami come andò che ti trovasti fra
le mani degli assassini. - Gli andò che il burattinaio Mangiafoco mi
dette alcune monete d'oro, e mi disse: "To', portale al tuo babbo!" e
io, invece, per la strada trovai una Volpe e un Gatto, due persone molto
per bene, che mi dissero: "Vuoi che codeste monete diventino mille e
duemila? Vieni con noi, e ti condurremo al Campo dei Miracoli". E io
dissi: "Andiamo"; e loro dissero: "Fermiamoci qui all'osteria del
Gambero Rosso e dopo la mezzanotte ripartiremo". Ed io, quando mi
svegliai, loro non c'erano più, perché erano partiti. Allora io
cominciai a camminare di notte, che era un buio che pareva impossibile,
per cui trovai per la strada due assassini dentro due sacchi da carbone,
che mi dissero: "Metti fuori i quattrini"; e io dissi: "Non ce n'ho";
perché le quattro monete d'oro me l'ero nascoste in bocca, e uno degli
assassini si provò a mettermi le mani in bocca, e io con un morso gli
staccai la mano e poi la sputai, ma invece di una mano sputai uno
zampetto di gatto. E gli assassini a corrermi dietro e, io corri che ti
corro, finché mi raggiunsero, e mi legarono per il collo a un albero di
questo bosco, col dire: "Domani torneremo qui, e allora sarai morto e
colla bocca aperta, e così ti porteremo via le monete d'oro che hai
nascoste sotto la lingua". - E ora le quattro monete dove le hai messe?
- gli domandò la Fata.
- Le ho perdute! - rispose Pinocchio; ma disse una bugia, perché invece
le aveva in tasca. Appena detta la bugia, il suo naso, che era già
lungo, gli crebbe subito due dita di più.
- E dove le hai perdute? - Nel bosco qui vicino. A questa seconda bugia
il naso seguitò a crescere. - Se le hai perdute nel bosco vicino, -
disse la Fata, - le cercheremo e le ritroveremo: perché tutto quello che
si perde nel vicino bosco, si ritrova sempre.
- Ah! ora che mi rammento bene, - replicò il burattino, imbrogliandosi,
- le quattro monete non le ho perdute, ma senza avvedermene le ho
inghiottite mentre bevevo la vostra medicina. A questa terza bugia, il
naso gli si allungò in un modo così straordinario, che il povero
Pinocchio non poteva più girarsi da nessuna parte. Se si voltava di qui
batteva il naso nel letto o nei vetri della finestra, se si voltava di
là, lo batteva nelle pareti o nella porta di camera, se alzava un po' di
più il capo, correva il rischio di ficcarlo in un occhio alla Fata. E la
Fata lo guardava e rideva. - Perché ridete? - gli domandò il burattino,
tutto confuso e impensierito di quel suo naso che cresceva a occhiate.
- Rido della bugia che hai detto. - Come mai sapete che ho detto una
bugia?
- Le bugie, ragazzo mio, si riconoscono subito! perché ve ne sono di due
specie: vi sono le bugie che hanno le gambe corte, e le bugie che hanno
il naso lungo: la tua per l'appunto è di quelle che hanno il naso lungo.
Pinocchio, non sapendo più dove nascondersi per la vergogna, si provò a
fuggire di camera; ma non gli riuscì. Il suo naso era cresciuto tanto,
che non passava più dalla porta.
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Ma quando lo vide trasfigurato e cogli occhi fuori della testa dalla gran
disperazione, allora, mossa a pietà, batté le mani insieme, e a quel
segnale entrarono in camera dalla finestra un migliaio di grossi uccelli
chiamati Picchi, i quali, posatisi tutti sul naso di Pinocchio,
cominciarono a beccarglielo tanto e poi tanto, che in pochi minuti quel
naso enorme e spropositato si trovò ridotto alla sua grandezza naturale.
- Quanto siete buona, Fata mia, - disse il burattino, asciugandosi gli
occhi, - e quanto bene vi voglio! - Ti voglio bene anch'io, - rispose la
Fata, - e se tu vuoi rimanere con me, tu sarai il mio fratellino e io la
tua buona sorellina... - Io resterei volentieri... ma il mio povero
babbo? - Ho pensato a tutto. Il tuo babbo è stato digià avvertito: e
prima che faccia notte, sarà qui. - Davvero?... - gridò Pinocchio,
saltando dall'allegrezza. - Allora, Fatina mia, se vi contentate, vorrei
andargli incontro! Non vedo l'ora di poter dare un bacio a quel povero
vecchio, che ha sofferto tanto per me!
- Vai pure, ma bada di non ti sperdere. Prendi la via del bosco, e sono
sicurissima che lo incontrerai. Pinocchio partì: e appena entrato nel
bosco, cominciò a correre come un capriolo. Ma quando fu arrivato a un
certo punto, quasi in faccia alla Quercia grande, si fermò, perché gli
parve di aver sentito gente fra mezzo alle frasche. Difatti vide
apparire sulla strada, indovinate chi?... la Volpe e il Gatto, ossia i
due compagni di viaggio, coi quali aveva cenato all'osteria del Gambero
Rosso. - Ecco il nostro caro Pinocchio! - gridò la Volpe, abbracciandolo
e baciandolo. - Come mai sei qui?
- Come mai sei qui? - ripeté il Gatto. - È una storia lunga, - disse il
burattino, - e ve la racconterò a comodo. Sappiate però che l'altra
notte, quando mi avete lasciato solo nell'osteria, ho trovato gli
assassini per la strada... - Gli assassini?... O povero amico! E che
cosa volevano? - Mi volevano rubare le monete d'oro. - Infami!... -
disse la Volpe.
- Infamissimi! - ripeté il Gatto. - Ma io cominciai a scappare, -
continuò a dire il burattino, - e loro sempre dietro: finché mi
raggiunsero e m'impiccarono a un ramo di quella quercia.
E Pinocchio accennò la Quercia grande, che era lì a due passi.
- Si può sentir di peggio? - disse la Volpe. - In che mondo siamo
condannati a vivere? Dove troveremo un rifugio sicuro noi altri
galantuomini?...
Nel tempo che parlavano così, Pinocchio si accorse che il Gatto era
zoppo dalla gamba destra davanti, perché gli mancava in fondo tutto lo
zampetto cogli unghioli: per cui gli domandò: - Che cosa hai fatto del
tuo zampetto? Il Gatto voleva rispondere qualche cosa, ma s'imbrogliò.
Allora la Volpe disse subito: - Il mio amico è troppo modesto,- e per
questo non risponde. Risponderò io per lui. Sappi dunque che un'ora fa
abbiamo incontrato sulla strada un vecchio lupo, quasi svenuto dalla
fame, che ci ha chiesto un po' d'elemosina. Non avendo noi da dargli
nemmeno una lisca di pesce, che cosa ha fatto l'amico mio, che ha
davvero un cuore di Cesare?... Si è staccato coi denti uno zampetto
delle sue gambe davanti e l'ha gettato a quella povera bestia, perché
potesse sdigiunarsi. E la Volpe nel dir così, si asciugò una lacrima.
Pinocchio, commosso anche lui, si avvicinò al Gatto, sussurrandogli
negli orecchi: - Se tutti i gatti ti somigliassero, fortunati i topi!...
- E ora che cosa fai in questi luoghi? - domandò la Volpe al burattino.
- Aspetto il mio babbo, che deve arrivare qui di momento in momento.
- E le tue monete d'oro? - Le ho sempre in tasca, meno una che la spesi
all'osteria del Gambero Rosso. - E pensare che, invece di quattro
monete, potrebbero diventare domani mille e duemila! Perché non dài
retta al mio consiglio? Perché non vai a seminarle nel Campo dei
miracoli? - Oggi è impossibile: vi anderò un altro giorno.
- Un altro giorno sarà tardi, - disse la Volpe. - Perché?
- Perché quel campo è stato comprato da un gran signore e da domani in
là non sarà più permesso a nessuno di seminarvi i denari. - Quant'è
distante di qui il Campo dei miracoli?
- Due chilometri appena. Vuoi venire con noi? Fra mezz'ora sei là:
semini subito le quattro monete: dopo pochi minuti ne raccogli duemila e
stasera ritorni qui colle tasche piene. Vuoi venire con noi? Pinocchio
esitò un poco a rispondere, perché gli tornò in mente la buona Fata, il
vecchio Geppetto e gli avvertimenti del Grillo-parlante; ma poi finì col
fare come fanno tutti i ragazzi senza un fil di giudizio e senza cuore;
finì, cioè, col dare una scrollatina di capo, e disse alla Volpe e al
Gatto: - Andiamo pure: io vengo con voi.
E partirono. Dopo aver camminato una mezza giornata arrivarono a una
città che aveva nome «Acchiappa-citrulli». Appena entrato in città,
Pinocchio vide tutte le strade popolate di cani spelacchiati, che
sbadigliavano dall'appetito, di pecore tosate che tremavano dal freddo,
di galline rimaste senza cresta e senza bargigli, che chiedevano
l'elemosina d'un chicco di granturco, di grosse farfalle, che non
potevano più volare, perché avevano venduto le loro bellissime ali
colorite, di pavoni tutti scodati, che si vergognavano a farsi vedere, e
di fagiani che zampettavano cheti cheti, rimpiangendo le loro
scintillanti penne d'oro e d'argento, oramai perdute per sempre. In
mezzo a questa folla di accattoni e di poveri vergognosi passavano di
tanto in tanto alcune carrozze signorili con dentro o qualche volpe, o
qualche gazza ladra o qualche uccellaccio di rapina.
- E il Campo dei miracoli dov'è? - domandò Pinocchio. - È qui a due
passi.
Detto fatto traversarono la città e, usciti fuori dalle mura, si
fermarono in un campo solitario che, su per giù, somigliava a tutti gli
altri campi. - Eccoci giunti, - disse la Volpe al burattino. - Ora
chinati giù a terra, scava con le mani una piccola buca nel campo e
mettici dentro le monete d'oro. Pinocchio ubbidì. Scavò la buca, ci pose
le quattro monete d'oro che gli erano rimaste: e dopo ricoprì la buca
con un po' di terra.
- Ora poi, - disse la Volpe, - vai alla gora qui vicina, prendi una
secchia d'acqua e annaffia il terreno dove hai seminato. Pinocchio andò
alla gora, e perché non aveva lì per lì una secchia, si levò di piedi
una ciabatta e, riempitala d'acqua, annaffiò la terra che copriva la
buca. Poi domandò: - C'è altro da fare? - Nient'altro, - rispose la
Volpe. - Ora possiamo andar via. Tu poi ritorna qui fra una ventina di
minuti e troverai l'arboscello già spuntato dal suolo e coi rami tutti
carichi di monete. Il povero burattino, fuori di sé dalla contentezza,
ringraziò mille volte la Volpe e il Gatto, e promise loro un bellissimo
regalo.
- Noi non vogliamo regali, - risposero quei due malanni. - A noi ci
basta di averti insegnato il modo di arricchire senza durar fatica, e
siamo contenti come pasque.
Ciò detto salutarono Pinocchio, e augurandogli una buona raccolta, se ne
andarono per i fatti loro.
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