Il mito di Promèteo
 

II titano che conosceva il dolore.

Il titano Giapeto, sposatosi con la titanessa Temi, aveva avuto quattro figli. Menezio, il maggiore, una creatura piena di orgoglio, si era schierato contro Zeus a fianco dei Titani rimasti fedeli a Crono. rimanendo fulminato dal dio. Il secondo, Atlante, un colosso immane. aveva anche lui combattuto contro Zeus, il quale, vedendolo cosi robusto, lo condannò a sostenere la volta del cielo, che gravò poi sempre sulle sue spalle. Venivano infine Epimèteo, ossia « colui che pensa le cose in ritardo», e Promèteo, ossia «colui che prevede»; il primo piuttosto ingenuo, sempre in balìa dei primi impulsi e alquanto stordito, e il secondo accortissimo, animato dai sentimenti più generosi  conoscitore del futuro. Promèteo non amava Zeus. Non perché fosse invidioso di lui. ma perchè il nuovo re degli dèi, nella sua raggiunta olimpica pace, gli sembrava inferiore al suo compito. Egli aveva scoperto una realtà che Zeus non conosceva: il dolore; si era accorto che la cosa più bella non è il dominio su esseri inferiori, anche se sono dèi, ma piuttosto il raggiungimento di ciò che vi è di più alto e misterioso, la Verità somma che anche gli dèi ignorano e a cui tuttavia devono anch'essi obbedire. Il dolore nasceva appunto da questa insaziabile sete di conoscere 

Promèteo creò il primo uomo modellandolo nell'argilla e dandogli vita


le verità supreme, molto più importante e preziosa che non la serena pace dell'Olimpo. 

Appaiono gli uomini.

Ma Promèteo non aveva alcuno che condividesse il suo anelito e perciò si sentiva solo e respinto da tutti; chiuso nel suo cruccio se ne stava appartato lungi dall' Olimpo, e copiose lacrime scorrevano lungo le sue gote. Finché un giorno si accorse che il suo pianto aveva addirittura formato a terra un pantano; si chinò, raccolse quella mota e modellò una nuova figura, e poi le ispirò un poco della sua divinità, e quell'essere di fango ebbe a un tratto calore, respiro, vita: fu il primo uomo. Promèteo amò gli uomini perché, ispirati da lui, soffrono di non poter conoscere la verità assoluta e sempre tendono ad essere più di quello che sono, a uscir dai propri limiti e superare se stessi. Dopo la vittoria di Zeus sui Titani rimasti fedeli a Crono, gli dèi riuniti a consesso chiamarono gli uomini per stabilire in qual modo essi avrebbero dovuto onorarli e quali parti degli animali di cui erano usi cibarsi avrebbero dovuto essere sacrificate agli immortali abitatori dell'Olimpo. Promèteo volle allora favorire le sue creature ed escogitò un'astuzia: fece uccidere un grande bove, nella pelle dell'animale nascose le parti migliori e ne avvolse le ossa in lembi di grasso; poi invitò Zeus a fare la scelta. Zeus, naturalmente, scelse quello che appariva un mucchio


Zeus tolse il fuoco agli uomini.

di gustose carni, e troppo tardi si accorse dell'inganno. Certo a Zeus, re degli dèi, non importava gran che delle carni di un bue; ma quello stratagemma gli faceva capire chiaramente che gli uomini osavano opporsi a lui e sostenere la loro indipendenza, che non erano disposti a venerarlo supinamente e si schieravano dalla parte di Promèteo. Pieno d'ira affermò:  « Priverò questi orgogliosi uomini del più prezioso dono che abbia loro concesso: toglierò loro il fuoco, donato loro dalle mie folgori, e attorno a cui si raccolgono per riscaldarsi, per cuocere il cibo, per forgiare le armi. »  
Si spegne e si riaccende la fiamma.

D'improvviso in tutte le case, 


in ogni capanna si spensero i focolari, languirono i fuochi sacri  sugli altari, e le torce che rischiaravano la sera ai conviti  non furono più che tizzi fumosi infìssi alle pareti. Le notti furono buie per gli uomini e i giorni si susseguirono freddi e grigi. La sera, quando si raccoglievano come al solito attorno ai loro capi per raccontarsi le vicende della giornata e fare progetti per il futuro, non vedevano più la bella fiamma in mezzo al loro cerchio, e le belve, invitate da quella oscurità, si avvicinavano minacciose. Gli uomini rimasero sbigottiti, ma Promèteo venne in loro aiuto. Alto sulla volta celeste correva il carro infocato del sole: il Tìtano lo considerò a lungo e poi si protese verso di esso, spinse attraverso il cielo il suo grande desiderio di luce e lo stesso desiderio lo portò con se, lo alzò nell'aria fino all'astro radiante.  Promèteo vi accese allora la sua fiaccola e tornò gioioso tra gli uomini. L'umanità si risollevò in festa; da ogni parte si recavano tronchi e fascine, e presto un immenso fuoco brillò chiaro e fulgente. Quando il carro celeste scomparve dietro i monti lontani e scese nell'Oceano.la nuova fiamma disperse le ombre calanti e illuminò tutt'intorno la notte.Zeus, dall'Olimpo, vide quel punto luminoso e si rese conto che ancora una volta Promèteo e gli uomini osavano opporsi ai suoi decreti. Erano ostinati, quei figli di Promèteo, ma egli li avrebbe colpiti in un modo nuovo, avrebbe mostrato loro di essere più scaltro del loro stesso creatore. E ricorse infatti a una sottile astuzia: chiamò a se uno dei suoi figli, Efesto, artefice di grande perizia, sebbene non creatore geniale come Promèteo, e gli disse: « Efesto, tu devi fabbricarmi un essere di forma umana ma molto più bello degli uomini e dotato di ogni apparente perfezione: un essere che colmi di stupore queste creature create da Promèteo e tale da dominarle tutte con la sua bellezza. Poi chiamò a raccolta tutti gli altri dèi e, mostrandosi in tutta la sua potenza, ordinò loro: « Ognuno di voi si prepari a offrire un dono alla creatura che io ho pensato per la punizione degli uomini, affinchè nessuno di loro possa resistere al suo fascino. » 


Nasce la prima donna. 

Efesto compì in breve la sua opera, e gli dèi vennero puntuali, con i loro doni. Atena, la dea delle arti, infuse al nuovo essere la capacità di compiere bei lavori; Afrodite, la dea della bellezza, gli diede il suo fascino; Ermes, il dio astuto, gli ispirò il desiderio di piacere agli uomini e l'arte di conquistarli; le Grazie, o Càriti, le tre più belle figlie di Zeus, curarono il suo abbiglia- mento e la sua acconciatura. Alfine la creatura respirò ed ebbe vita, e fu Pandora, la prima donna.  Frattanto Zeus aveva racchiuso in un vaso prezioso tutte le sciagure possibili e immaginabili, e dopo averlo accuratamente sigillato, lo affidò a Pàndora dicendole: « Va' da Promèteo, che sarà il tuo sposo, e portagli questo vaso in cui sono contenuti i 

Le Grazie, o Càriti, curarono l'abbigliamento e l'acconciatura.


tuoi doni di nozze. »  Ma Promèteo guardò pieno di diffidenza la bella creatura sconosciuta e la respinse sdegnoso insieme con il  dono che ella gli recava, presago della sventura in esso racchiusa. Pàndora tornò mortificata da Zeus. « Ebbene, » la confortò il re degli dèi, « se Promèteo ti respinge, va' dal fratello suo, Epimèteo, che certo ti accoglierà. » Epimèteo, infatti, ingenuo com'era, fu molto lieto di quella fanciulla e, incuriosito, si affrettò ad aprire il vaso fatale. Immediatamente tutti i mali si riversarono sugli, uomini dando inizio alla loro travagliata vita: nel vaso rimase solo la speranza.

Promèteo incatenato.

Zeus, però, voleva punire anche Promèteo e, soprattutto, essere sicuro di non avere più nulla da temere da lui. Ordinò a suo figlio Efesto di andare dal dio ribelle e di impadronirsi di lui con l'aiuto di due feroci dèmoni, Cratos e Bia, la forza e la violenza. Efesto obbedì, e Promèteo non oppose resistenza, perché, prevedendo tutto, sapeva di essere destinato a quella prova. Seguì Efesto sulle montagne del Caucaso e qui si lasciò incatenare da lui a un'alta rupe. Per anni e anni Promèteo rimase prigioniero su quella solitaria roccia. Ogni giorno un'aquila, figlia del mostro Tifone, veniva a rodergli il fegato, e ogni giorno il suo fegato rinasceva affinchè potesse durare all'infinito quel supplizio. Ma non per questo lo spirito di Promèteo era stato domato. Avvinto alla roccia, egli ricordava i grandi benefici da lui resi agli uomini, li vedeva condurre operosamente la loro faticosa vita, e tanto gli bastava per dargli la forza di sopportare l'atroce pena in attesa del momento in cui sapeva che, per volere del Fato, sarebbe giunta la liberazione.  « Un tempo, » egli pensava, « gli uomini avevano occhi e non vedevano, avevano orecchi e non udivano; vivevano nel disordine e nella confusione come le immagini del sogno. Non sapevano costruirsi case 


Per anni e anni Promèteo rimase prigioniero su quella solitaria roccia.

con mattoni cotti al sole, ignoravano l'arte di lavorare il legno; vivevano sotto terra, come le agili formiche, o nel fondo di grotte senza luce. Non sapevano quando sarebbe venuto l'inverno, o la primavera fiorita, o la fertile estate; non avevano l'uso della ragione. Io insegnai conoscere il cammino degli astri nel cielo e a distinguere così le stagioni; io insegnai loro l'arte dei numeri e (quella di riunire le lettere' per formare la scrittura e lasciare con esse il ricordo di ogni vicenda avvenuta. Per primo io aggiogai i buoi all'aratro e misi il morso ai cavalli; ed inventai le navi dalle ali di tela che permettono ai marinai di correre i mari. »  Poi alzava gli occhi al ciclo e lanciava al potente Zeus una triste profezia:  « Verrà un tempo, lo vedo con certezza, in cui Zeus, per quanto sia ostinato il suo cuore, umile e prostrato cadrà dal suo trono: e allora sarà compiuta la maledizione scagliata su di lui da Crono, suo padre, il giorno in cui egli lo fece cadere dal trono antico. Il giorno in cui cadrà 

in questa sventura. Zeus saprà che differenza vi sia tra regnare e servire. »  Sapeva infatti che il vero signore dei destini umani e celesti non era Zeus ma un Fato misterioso che nessuno può evitare e che un giorno avrebbe decretato la fine anche per gli dèi della Grecia.

Promèteo liberato.

Durò per secoli la prigionia di Promèteo prima che venisse il giorno della sua liberazione. Frattanto Zeus si era riconciliato con gli uomini avendo compreso che, al pari di loro, anche gli dèi son sottomessi al Fato che tutto domina; e, attraverso molte vicende. aveva conosciuto anche lui il dolore che raggiunge egualmente gli uomini e gli dèi. Poteva dunque far la pace anche col Titano ribelle.  Il forte Èracle, figlio di Zeus e di una donna mortale, scalò le montagne del Caucaso, giunse alla rupe del prigioniero solitario e spezzò le sue catene. Promèteo fu accolto nell'Olimpo con le altre divinità. 


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